“ la Fotografia di  Pietro Menditto tra Napoli ed il Mondo”     

a cura di Mario Mangone (intervista del  20 marzo 2021) 

 

Soffermiamoci sull’avventura professionale di Pietro, quella di un fotografo napoletano,  plasmatosi lungo una serie di esperienze consumate tra le più grandi metropoli del mondo;  cerchiamo di carpirne evoluzioni, relazioni, stratificate e successive maturazioni nel campo del linguaggio fotografico internazionale, per poi fare qualche generale considerazione sullo stato della fotografia a Napoli.

 

Pietro, innanzitutto com’è nata la tua professione di fotografo? E’ stato un atto istintivo o frutto di  differenti vicissitudini lungo il corso della tua vita professionale?

Il mio incontro con la fotografia è stato molto casuale. Certo da pischello che ero, sicuramente ho coltivato il desiderio di cavalcare il desiderio di fare uno dei mestieri più belli del mondo, un mezzo per girarlo più volte e nello stesso tempo conoscere più gente possibile. Sicuramente questa è stata la mia prima scintilla.

 

Quindi la fotografia come strumento per esaudire un desiderio, una curiosità? Non come scelta di un linguaggio espressivo?

Il linguaggio espressivo è venuto dopo, perché una serie di circostanze fortunate mi hanno permesso di maturare poi una più proficua relazione con la “fotografia”.  Infatti basta pensare alle mie prime esperienze, lontano da Napoli, ad esempio quella di Milano, che mi ha subito offerto la possibilità di frequentare i più importanti studi fotografici dell’epoca, come assistente e collaborazioni varie.

Ma diciamo che la mia forma di strumentalizzazione del mezzo o linguaggio fotografico, sicuramente è da addebitare al grande salto esperienziale provocato dal mio allontanamento da Napoli per approdare al grande mondo della Londra degli anni ’80. Un’esplosione di linguaggi in tutti i campi, la trasgressione come norma, l’avvento del fenomeno punk, la poliedrica offerta di concerti musicali e sfilate di moda, mi spingevano continuamente ad approfittare del mezzo fotografico e della mia professione, che iniziava a legittimarsi come presenza fissa per ogni occasione. Ecco fu a Londra che esperienza personale e strumento fotografico, iniziano a fondersi ed è lì che il bisogno di affinare, condividere un linguaggio che mi appartenesse inizia a fondare le basi per la mia futura professione.

 

Ecco sicuramente l’effervescenza metropolitana degli anni ’80 rispondeva ad esigenze che a Napoli, non avevi trovato. Teniamo conto che sono gli anni del dopo terremoto, della corruzione diffusa, di un sistema socioeconomico chiuso e piramidale, profondamente diverso da un sistema liberale e competitivo come quello operante nelle altre metropoli europee. Quindi proprio per questo motivo non senti nemmeno l’esigenza di ritornare a Napoli dopo l’esperienza di Londra?

 

No, infatti non sarà proprio nelle mie corde, considerare Napoli, città dove poter ritornare. Mi sarà molto più facile rafforzare le mie esperienze londinesi, in un contesto, se non simile, ma almeno congeniale a continuare a mettere in pratica tutto ciò che mi aveva attraversato sino ad allora e quindi Milano , mi sembrò la scelta più giusta come fotografo. Ovviamente allora Milano era una delle piazze più forti a livello internazionale e la fotografia assunse un ruolo fondamentale, quasi fondante per affermare una nuova epoca dei linguaggi a sala globale. Se poi aggiungiamo a questa funzione strutturale della fotografia, anche un contesto sistemico organizzativo e produttivo, tutto interno alle filiere della moda, tra sfilate, riviste, periodici specializzati, eventi televisivi, le prime collaborazioni con i fotografi delle sfilate come Graziano Ferrari, che aveva iniziato con Mare Moda Capri nel 1974 e con Alta Moda Roma; poi ha fatto la storia della fotografia delle sfilate di Moda, le ha raccontate con le sue foto, contribuendo con i suoi scatti a farla diventare un mondo, a crearne il mito. Poi Rudy Faccin Von Steidlche ci ha lasciato pochi mesi fa. Questi tra i tanti con cui ho collaborato.  Ricordo ad esempio nei primi giorni delle sfilate di Milano, ero a disposizione per tutte le necessità di questi importanti fotografi, poi alla fine delle sfilate mi chiedevano se ero disposto a seguirli ad esempio a Parigi ed io rispondevo ovviamente di sì; allora mi dissero fatti trovare a Parigi ed io dovevo, in modo sempre rocambolesco, risolvere questo problema da solo, senza aiuti e quindi aprire  nuove porte per le mie esperienze internazionali.  Milano a quel punto era diventata la mia base, risultava la città più giusta per quel periodo. Napoli per me fu una location come tante altre, senza nessuna connotazione specifica, se non quella personale, privata delle mie origini. Per me era una location come tante altre.

 

Quindi diciamo che a Milano, maturi finalmente il senso profondo della tua professione, le sue tecniche, le sue dinamiche interne, ma ho l’impressione che ad un certo punto sarà sempre il bisogno di farti assalire da nuove esperienze, da non sentire l’esigenza di mettere insieme tutti i fili della matassa che si era dispiegata in tanti rivoli,  che appunto decidi di andare oltre ed aprirti a scelte di nuovo radicali, è vero?

Infatti una delle mie esperienze più significative risulta essere poi quella vissuta a San Paolo, iniziata per combinazione attraverso una conoscenza, che mi chiese se volevo andare in questa città brasiliana ed io sull’onda della mia giovane età, sulla facilità con cui allora si viaggiava in aereo con pochi soldi, immaginai di avere il mondo in tasca, per me prendere un areo ed essere catapultato all’altro capo del mondo era un privilegio che ho cercato di sfruttare al massimo.

Come quella di andare a Sidney, un salto appunto che può sembrare radicale, più dovuto alla mia curiosità di conoscere il mondo, ma più in continuità di quanto può sembrare, perché è lì che ritrovo il mondo della fotografia, più legato al mondo del cinema, con il quale ho potuto maturare altre esperienze che mi sono servite in seguito, insieme ovviamente al  grande mondo della moda, delle grandi modelle, delle grandi agenzie e riviste internazionali ed ovviamente dei grandi fotografi nel mondo del fashion globale. Una parentesi sicuramente significativa che mi spinge poi ad andare, nei primi anni ‘90 ad Atene, perchè mi permetteva, in un mondo ancora non pienamente globalizzato (non c’era ancora internet, non c’era nulla),  di tenere i piedi in un ambito urbano fortemente internazionalizzato come  quello ateniese. C’era un’editoria nel settore della moda fortemente sviluppato e connesso con tutto il mercato della moda internazionale. C’erano pochissimi soldi, però in quel periodo venivano i più grandi fotografi del mondo che coprivano due estetiche imperanti: la prima quella delle “Supermodels”, quelle del grande glamour: Linda Evangelista, Naomi Campbel, Cindy Crawford ecc. e poi la seconda espressa da un altro genere di modelle rappresentate dalle  “Eroin Chic”, quella più underground, per intenderci, quella rappresentata da Kate Moss. Ad Atene si formò questo enclave internazionale, perché certo, tutto costava poco, si faceva una vita libera, un po’ anarchica, ci si ubriacava con facilità, si andava alle feste, c’erano le riviste di  moda che ti davano poche lire, ma andavano bene. Si scattava spesso fuori, perché c’era una luce molto bella, modelle bellissime che alla fine producevano uno style life urbano diffuso, una particolare estetica la cui eco si diffondeva nelle grandi piazze del fashion mondiale.  Poi questa stessa popolazione andava a Miami.

 

Fermiamoci per un momento su questa tua esperienza ateniese. Hai avuto l’impressione  che Atene, in quanto grande metropoli mediterranea avesse alla fine poco dello spirito tipico di una grande città mediterranea? Che proprio a partire dai primi anni’90 ad Atene si sia sviluppato un forte legame con la cultura statunitense, basta pensare alla loro competenza nel settore della pallacanestro, oppure ad una diffusa conoscenza della inglese e così via. Insomma una netta cesura storico-immaginaria tra la vecchia Atene, vissuta  intorno al quartiere Plaka,  oppure intorno ai cordoni ombelicali  costruiti nella storia millenaria con le isole di fronte al Pireo, per destinare il proprio futuro nelle mani di una potenza imperialistica come quella degli Stati Uniti d’America. Non a caso avremo poi il grande scandalo di Jacqueline Kennedy con  Onassis, come negli anni successivi il grande successo dell’isola di Mykonos attraverso la presenza del grande jet set internazionale amalgamato dai trend del  fashion, musica dj, discoteche e grandi case discografiche mondiali.

 

Sì infatti non ho notato questa grande differenza tra la storia di  una città come Atene  e la vita di quegli anni. Si andava in giro per la città a fotografare, senza il peso o il cruccio della “storia” e quindi posso benissimo dire che la presenza delle grandi riviste di moda ad Atene ebbero il ruolo di incunearsi in questo particolare interstizio che ha provocato grandi fratture tra l’esperienza del prima e dopo anni ’90 ad Atene. Al punto tale che passo da una città all’altra senza percepire grandi differenze. Infatti poi mi ricolloco sulla piattaforma Atene-Milano-Miami, perché le riviste giravano su queste piattaforme, io mi davo da fare sia come fotografo, che come assistente a fotografi abbastanza famosi, non c’era internet quindi facevo il producer, cioè occupavo il ruolo di “fixer”, un mediatore che si occupa dell’organizzazione dei servizi fotografici sul luogo. In qualche modo riuscivo a gestire la mia presenza in questa piattaforma, visto i costi bassi che allora avevano i voli  aerei.

Poi la mia esperienza a New York, da poter leggere come tappa importante per legittimare finalmente la mia maturità professionale, ma  risulta a mio avviso quella più deludente e meno stimolante, per il semplice fatto che  tutto mi sembrava un già visto, oltretutto avendo già lavorato con tanti americani, mi sembrava di stare a casa. La stessa iconografia di New York era già conosciuta, attraverso tutto il mio immaginario filmico consolidatosi, negli anni, mentre a San Paolo in Brasile, ad esempio le dinamiche reali della vita urbana erano più rispondenti a conflitti reali, a conflitti di classe e non razzistici e separatisti come quelli newyorkesi.

 

Quindi New York era importante in quanto sistema, in quanto meccanismo rigidamente regolato, conosciuto dai molti,  nei suoi meccanismi più profondi ed in quanto tale potente, ma rigido, poco stimolante. Che è quello poi ereditato anche da Milano e tutte le altre metropoli dell’occidente.

Sì era appunto un sistema, da cui potevano scaturire i veri lavori grossi, ma però non produceva grandi fermenti. Cosa che ho trovato invece a San Paolo. Per farti un esempio a San Paolo c’era il “classismo”, non c’era il “razzismo” come a New York. In quest’ultima c’erano posizioni più snob ed addirittura atteggiamenti precisi all’interno delle agenzie di moda, che preferisco non citare, per non provocare la suscettibilità di qualcuno. Molto “settarismo” a differenza di altri circuiti underground.

 

Quindi evidenzio che ciò più ti ha condizionato nella tua professione di fotografo, non è stato tanto il coltivare un linguaggio differente da un altro, ma aver condiviso le pratiche, le modalità consolidate all’interno di in “sistema” particolare e specifico come quello della Moda Internazionale, con le sue ferree leggi e condizionamenti. Sarebbe interessante aggiungere in questa riflessione, il ruolo della musica, della comunicazione in genere a partire dagli anni’60 in poi, diciamo dal dopoguerra in poi e verificare che a questi settori sensibili al cambiamento del gusto, degli stili, del costume in generale, gli sia stato accreditato un ruolo che è andato oltre al loro stesso specifico. Ma questo è un tema che andrebbe approfondito in altra sede.

 

Sì poi alla fine, non è che queste esperienze mi arrecassero dei vantaggi economici notevoli. Da New York si ritornava certo più maturi e pieni di esperienza, ma sostanzialmente senza una lira, per i costi enormi di fitto, di prezzi ecc. Quindi una sorta di formazione professionale continua, però fatta a tue spese.

Per cui una giusta mediazione è risultata sempre Milano, che negli anni’90 mi ha dato il meglio di cui potevo avere in quel periodo, fino ai primi anni del 2000.

 

Perché intanto che succede?

Ci saranno tre crisi. La prima con  l’avvento del digitale, poi  le crisi economiche del 2007 e 2011  che hanno affonderanno profondamente tutto il settore della fotografia. Gente che pur avendo fatto investimenti nel settore del digitale, sono poi incappati in fallimenti clamorosi. Quindi la prima botta è stato il salto tecnologico. Poi c’è stato la grande crisi economica del 2007-2008. C’è da dire che in quel periodo c’era una grande confusione nei linguaggi fotografici diffusi per il mondo, infatti non si capiva quanto dovesse spettare al digitale e quanto ai tradizionali linguaggi nel settore della fotografia. Infatti quello fu un periodo che non ha detto nulla per quanto mi riguarda.

 

Oggi a cosa si riduce la tua professione di fotografo?

Si è ridotta ad una faticosa riconversione del linguaggio fotografico classico in quello digitale, compreso il linguaggio video, infatti al di là di altri lavori che ho svolto in questi ultimi anni, anche questa mia piccola collaborazione con Raffaele Cascone si colloca nella continuità di questa mia intima transizione dalla fotografia al ruolo di filmaker, che inizia a fare i conti con piattaforme linguistiche molto più complesse di un semplice scatto cinematografico.

 

Vedi per Napoli un suo ruolo specifico? 

A suo tempo quando ero impegnato in qualche servizio su Napoli, i miei clienti mi chiedevano, ma dove ci hai portato? Perché mi impegnavo a fare i miei servizi fotografici in posti insoliti, lontano dal cliché classico napoletano. Oltretutto  eliminavo il contesto paesaggistico ed urbano e mi concentravo su un particolare. Ad esempio ero molto affezionato ad utilizzare i fondali dell’architettura moderna del primo novecento napoletano,  vedi Mostra D’Oltremare con la suaLa Fontana dell’Esedra, una meravigliosa location all’interno del quartiere fieristico. Oppure il Palazzo delle Poste a Piazza Matteotti,   prime testimonianze della modernità a Napoli, quindi in quanto tali “memorie di modernità”. Materiale ancora vivo che può dialogare ed interfacciarsi con gusto ed un’estetica internazionale. Ecco era questo il mio approccio con Napoli, ora credo, per esasperare questo mio concetto,   che mi permetto di dire che Napoli può essere completamente utilizzata come scenario decontestualizzato,  da poter dialogare con tutto il mondo. In cui la memoria, la pausa, la mobilità, la velocità della sua esperienza vissuta nel quotidiano può essere messa allo stesso livello di qualsiasi altro luogo del globo. Senza nessuna alterità ideologica o gerarchia di gusto estetico o stilistico. Napoli città come tante altre, in cui trovo la sua stratificazione temporale, i suoi salti funzionali urbani e territoriali, ma senza l’aura di chi si ritiene al di sopra degli altri. Napoli è dei napoletani, ma cosa fondamentale è farla considerare patrimonio di tutti. In ciò deve svilupparsi l’abilità dei napoletani, a non chiudersi, ma ad aprirsi alle dinamiche del nuovo mondo che ci aspetta…”.